Il tempo dell’arte pensante

In mostra a Roma all’Accademia di Francia − Villa Medici fino al 11 Maggio, la bellissima retrospettiva di Simon Hantaï, pittore di origini ungheresi che dopo un anno di soggiorno italiano si trasferì a Parigi dove morì nel 2008.

L’esposizione postuma di quest’artista naturalizzato francese e considerato uno dei maggiori protagonisti dell’astrattismo del secondo novecento, come spiega il suo curatore Éric de Chassey è “il prolungamento romano” della mostra tenutasi al Centre Pompidou nel 2013 a cura di Dominique Fourcade, Isabelle Monod Fontaine e Alfred Paquement.

Vado alla vernice, martedì 11 febbraio e, come un visitatore che ritorna a casa felice con gli occhi ricchi di bellezza, rifletto sopra il panorama artistico contemporaneo, mentre cammino con amici, sopra gli sdentati sampietrini romani – tasselli squadrati non messi più bene in opera – a ricordarci la bruttezza del nostro tempo italiano, sopra la pavimentazione di una Capitale che disabilita tutti senza pietà.

Una serata lucidissima di pioggia incessante e intermittente come il nostro passo saltellante sopra le buche e dentro le pozzanghere che allontanandoci dalle grandi stanze espositive – percorse quasi a passo di danza nel silenzio elegante di una vera esposizione culturale – ci sospende sopra il nostro traballante Paese, svuotato, negli ultimi anni, di vere promozioni intellettuali e di sano mecenatismo. Invece la Francia, ci riqualifica come osservatori colti, preparati a interpretare il nostro tempo, quello che parla le lingue artistiche/filosofiche utili al mondo sensibilizzato, all’estetica come sistema di plusvalori sociali e relazionali, al sapere individuale come mezzo di conoscenza per comprendere l’evoluzione di quello che dovrebbe essere il nostro senso etico dello Stato.

Allora cerco di guardare più profondamente l’appena visto e di comprenderne l’importanza.

Così tornano gli occhi sopra la cartella stampa dell’antologica italiana di Simon Hantaï. Leggo le parole lasciate dall’artista: «Compiere, riuscire, concludere vanno messi – se possibile – tra parentesi. In via preliminare, padroneggiare non è nemmeno cominciare. È illustrare il già saputo » e quelle scritte dal suo curatore: «[…] Perché mostrare in Italia il lavoro di Hantaï vuol dire riportarlo in uno dei luoghi che hanno contribuito alla sua nascita […]»

Leggere le opere, attraversando la loro storia, ricollocandole ai luoghi che le hanno originate, che le conservano o le ospitano, significa capirne il pensiero che è valore profondo per il vero artista – suo bisogno primario – da ridare generosamente al mondo.

Poi, ripercorrendo mentalmente l’itinerario visivo dell’esposizione di Villa Medici, individuo due tempi fondamentali per la comprensione della complessa articolazione spaziale del lavoro dell’artista ungherese: un tempo, che contiene i luoghi della memoria, origine del suo “illustrare il già saputo”; e un tempo fetale che regola il linguaggio della sperimentazione artistica che mai si compie, mai si conclude, perché il “padroneggiare non è nemmeno cominciare”.

Dentro i luoghi della memoria visitati durante il suo viaggio in Italia nel1948, nel suo pellegrinare verso una Patria elettiva, il pittore guarderà dentro il pensiero dell’arte italiana – quella dei grandi pittori umanisti del medioevo e del rinascimento – archetipi del felice astrattismo delle “Mariales” e delle “Tabulas”.

Nel tempo francese che parla una lingua dipinta che scrive inscrivendosi o pensandosi nell’opera stessa, l’artista vivrà in contatto con il mondo culturale del suo tempo; con i grandi filosofi e scrittori suoi contemporanei, come Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy, Héléne Cixous e Dominique Fourcade.

E nel suo tempo che dialoga e interagisce con l’arte, la pittura nascerà sempre rinata fino alla sua umiliazione finale (Pilage à usage domestique del 1990) ritornando idea prima, concettualità surreale.

Quindi la pratica pittorica di Hantaï si presenta come esercizio della mente, sintesi dell’idea che si espande alla scrittura, alla fotografia, alla filosofia.

Ritorno al percorso espositivo ed entrando nella prima stanza, entro in una dimensione legata al sacro come tema simbolicamente espresso e messo in evidenza nei segni formali, gestuali, delle due grandi opere dipinte durante l’anno liturgico che va dal 1958 al 1959. In quest’anno, l’artista lavorerà a entrambe ogni giorno; la mattina a "Écriture rose", ricopiando i testi del messale con aggiunta di citazioni filosofiche e il pomeriggio a "À Galla Placidia", in memoria della visita al mausoleo di Ravenna e alla sua cupola a mosaico che raffigura un cielo notturno di stelle con centro una croce d’oro.

E proseguo nello spazio sacralizzato della pittura astratta di Hantaï, con le “Mariales” [Mariane] realizzate tra il1960 e il 1962, quando il pittore ungherese passerà all’action painting, iniziando la sperimentazione del pilage, pittura realizzata sopra una tela spiegazzata sulla quale stenderà il colore e dopo averla indossata come un manto, a ricoprire completamente la figura, la dispiegherà, come unica superficie distesa (tela).

Continuo ancora, con il mio passo lento e ondeggiante, ad ammirare le tele spostando lo sguardo sopra la targhetta che di ogni opera dice: la data, Il luogo dell’ubicazione, la provenienza e, soprattutto, il titolo. Titolo che m’introduce a una lettura interpretativa, indice esso stesso, di una sintesi del pensiero artistico.

E mentre fuori la pioggia piove, sul manto di pietra che ingrigisce i passanti, una grande e densa campitura di blu mi appare: È la grande “Mariale, Manteau de la Vierge” [Mariana, Manto della Vergine] proprietà dei Musei Vaticani e presente solo in questa retrospettiva italiana.

Qui decido di sostare, di approfondire lo studio e di azzardare una mia interpretazione dell’opera che è di centrale importanza in questa retrospettiva italiana, perché ritrova lo spazio mentale del suo luogo d’origine, la sua cittadinanza simbolica.

Guardo la tessitura del grande manto, la materia pittorica si disvela come pensiero.

Penso che la pittura di Hantaï, pensa il pensiero umanista di Giotto, il suo cielo perfetto e il suo remoto inizio. Quel cielo stellato di azzurrite della Cappella degli Scrovegni che ricopre e lega il ciclo degli affreschi e la loro narrazione, principio di salvezza per chi lo osserva.

Un cielo/manto che avvolge l’uomo ricoprendolo, logos, origine del pensiero astratto dell’artista, suo concetto metafisico e cromatico che si fa materia; manifestandosi al mio sguardo come pietra, lastra di lapislazzulo.

Contemplo il grande Mariale, Manteau de la Vierge e, per il blu ridipinto di blu, volo in Paradiso al Canto XXXIII: […] "Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faceasi accesa" […] (Dante, Preghiera di san Bernardo alla Vergine).

Nell’impiego della piega e nell’iconologia del manto, vivono le speculazioni filosofiche di Gilles Deleuze nel suo saggio “La piega Leibniz e il Barocco”, scriverà: « […] Il Barocco è l’arte informale per eccellenza….Ma l’informale non costituisce una semplice negazione della forma: esso attesta la forma come forma piegata ed esistente solo in quanto «paesaggio mentale», nell’anima o nella nostra testa, in altezza, là dove troviamo le nostre pieghe immateriali. Le materie sono il fondo, ma le forme piegate corrispondono a maniere…. La materia che rivela le sue pieghe diventa forza. […]».

Come nelle pieghe dispiegate del grande Manto blu, non c’è soltanto la tessitura del “già saputo”, memoria dei manti delle Vergini, di tante opere viste dal pittore ungherese durante il suo soggiorno romano (Da Giotto a Piero), ma l’introduzione a un pensiero nuovo nell’arte.

Sempre dal saggio di Deleuze: "Hantaï , all’inizio, rappresenta semplicemente la piega…..[…] "A volte fa vibrare il colore nei ripiegamenti della materia; a volte fa vibrare la luce nelle pieghe della materia. Tuttavia, perché la linea barocca resta solo una possibilità per lui? Perché egli non cessa di confrontarsi con un’altra possibilità, vale a dire con la linea d’Oriente.[…] "Hantaï lascia vuoto l’occhio della piega e ne dipinge solo il lati (linea d’Oriente), anche se gli capita di creare nella stessa regione delle piegature ulteriori che non lasciano più sussistere alcun vuoto (linea piena barocca)."

Oggi non piove più, l’Italia sempre traballa, ma forse c’è ancora una salvifica speranza per l’arte italiana.

La grande opera conservata nei Musei Vaticani, mi conferma che Il mecenatismo e l’attenzione verso l’arte contemporanea da parte della Chiesa, vivono.

Concludo lo scritto, piego i pensieri ed esco.

Ricammino filosoficamente sopra i sampietrini romani e dispiegando le idee, torno al mio ricominciamento artistico con le parole di Zhuang-zi : "Benché i piedi dell’uomo non occupino un piccolo spazio sulla terra, è grazie a tutto lo spazio che non occupano che l’uomo può camminare sulla terra immensa."

Mariale p

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mariale, Manteau de la Vierge, 1960, Musei Vaticani