Lo spazio ipermoderno: l’eredità dei padri e l’evaporizzazione delle madri

La verità parla solo laddove il soggetto si eclissa, laddove il pensiero e l’essere si disgiungono evidenziando che “io” non sono mai quello che penso di essere poiché il mio essere trascende sempre il mio pensiero.
(Massimo Recalcati)

Rileggo il titolo di “Viaggio a Roma con Nanni Moretti“, torno a un’altra possibile interpretazione di “Mia madre”, ultimo suo film visto nel suo Cinema Sacher, ora in concorso a Cannes – ritrovo – altro poeta italiano e altra trama.
Penso all’arte concettuale, al pensiero poetico e la sua emotività contenuta, all’Italietta, dove non c’è più speranza, perché il pubblico è tele-rimbecillito e analfabetizzato.
Ci commuovono le facce grottesche dei vecchi personaggi sorrentiniani? Quale lettura della realtà è la sua? Quella che giustifica, fingendo di analizzarlo, un mondo patologicamente malato e squallido?
Torno al mio Moretti, alla sua giusta sobrietà, al suo stile che sottolinea la differenza intellettuale che mi separa per sempre da: quella Roma grassa, dalle sue maggiorate escortabili, dall’ineleganza congenita di uomini – consumatori d’amore – senza più speranza. Dentro una scenografia di una Capitale che sembra non avere più letteratura di sé, nelle sue bruttezze degradate e disumane del “che te frega”, l’onestà di un cinema, ritorna come una carezza e una ritrovata poesia.

Da Mia Madre a A mia madre: una possibile trama poetica

Vado al mio sogno, in quella buona Roma morettiniana vera, alle grida dei manifestanti che mi risvegliano dentro la trama di una poesia, “Il coro di cuturnici” di A mia madre di Eugenio Montale.
Penso: «Il film è la poesia stessa!»
Rileggo il poeta e il senso della sua lirica da quel canto che allevia il dolore della perdita materna: “or che la lotta dei viventi più infuria”.

Così mi trasporto fino alla fine dentro una realtà immutabile, scarna e senza linguaggio, che non è solo cifra stilistica, ma adesione a quel: “gesto di una vita che non è altra ma se stessa”.
Insomma, la preferisco descritta così Roma, come una madre evaporata, che contiene ancora il suo cinema e le parole ereditate dai grandi cineasti, dai poeti.
Non decadente e ammiccante ma tragica nel suo verismo, intensa.
E riapro un’altro capitolo sul tempo e sulla sua permanenza, un’altra interpretazione sulle cose viste e sulla loro sopravvivenza poetica.
E dalla poesia di Montale pensata come trama simbolica, torno al luogo fisico e all’ultima parola di Ada: “E domani”?
“E la domanda che tu lasci è anch’essa un gesto tuo, all’ombra delle croci.”

Roma, 22 maggio 2015