_| Un grande poeta argentino, dentro il buio della sua cecità, scrisse di come deve essere l’arte: uno specchio situato in fondo alla stanza che ci guarda, rivelandoci la nostra vera faccia.* Avevo sedici anni, frequentavo la scuola d’arte, ma non avevo maestri contemporanei di riferimento solo questo borgesiano poetante pensiero e la sua metafora apparentemente narcisistica che, ancora oggi, mi comunica racchiusa nell’etichetta etica, la chiave di fedeltà al mio lavoro. Indossandola, aggiungo all’ abito ( tela/ canovaccio d’una cifra), le mie parole dipinte, alla ricerca di uno stile con valore sentimentale aggiunto. Ma di tanta stoffa per ricoprirmi d’aurea non ne ho più e non c’è misura, non esistono serrature d’aprire, ma solo presuntuose capacità introspettive o analitici sguardi verso l’altro; un io/noi visivi tra la gente, punti prospettici di geometrie da dove guardare per essere visti. E penso, proiettando l’improiettabile – d’antica allieva di Borges – mio Velázquez della parola** – che: < l’artificio umano, centro senza distanza del nostro osservarci, possa ancora accogliere nel suo limite – il mistero delle rette invisibili dell’uno (creatore/creato)- insieme allo sguardo dell’altro ( spettatore/ anch’esso limitato ). Poi, come un’opera trascurata scrivo: < quando il creatore e il critico coincideranno,(avranno lo stesso punto di vista) e le rette, convergeranno nella bellezza penetrandola; la bellezza coinciderà con il bello, il bello con amore, e da questo nuovo pensiero sarò finalmente sedotta!> |
** Velázquez_ “Las Meninas”