Questo tempo e il suo luogo: Da “Roma mia Madre” a “Mia madre”
Vado alla presentazione del libro “Viaggio a Roma con Nanni Moretti” Di Paolo Di Paolo e Giorgio Biferali, alla Feltrinelli di Piazza Colonna a Roma.
Alla conferenza era presente anche il regista romano, compro il libro e gli chiedo di scrivere la mia dedica: A Giulia di Via Giulia. Poi mi congratulo per la sua ultima opera “Mia madre”, annunciandogli che presto pubblicherò nel mio blog, diario di viaggio delle mie poetiche, le suggestioni sul film: già scritte, ma ancora in fase di rilettura e di rielaborazione.
Torno a casa, sfoglio il libro che oltre ad essere un racconto cronologico del cinema morettiano – una lettura dentro le sue letture – è anche una mappa dei luoghi di Roma dove sono stati girati molti film del regista romano e mi rincuoro.
Leggo il titolo dell’ultimo capitolo “Roma mia madre”, (intervista degli autori a Nanni Moretti) e rileggo con stupore intuitivo, la mia interpretazione fatta su questa sua ultima opera cinematografica.
Decido di riordinare e di approfondire i miei appunti già scritti dopo avere già visto il film, con l’aiuto di un libro di Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco – per riaprire anche un nuovo capitolo sul tempo – dentro uno spazio artistico contemporaneo; nella speranza di ritrovarmi attraverso l’uso dei linguaggi analitici e delle metodologie artistiche di altri.
Roma, 28 aprile, 2015
Dallo spazio immanente della realtà al luogo simbolico della parola
«La differenza simbolica tra le generazioni lascia il posto a una loro confusione di fondo.
Si tratta – per riprendere una formula di Pasolini – di una “mutazione antropologica” recente: l’evaporazione degli adulti, dileguati di fronte al peso delle loro responsabilità educative».
(Massimo Recalcati,”Il complesso di Telemaco”, Feltrinelli Editore, marzo 2013)
“Mia Madre” è l’opera matura di Nanni Moretti: si ricollega con le tematiche di altri sui film metaforici sulle paure della perdita, dei cambiamenti politici e sociali, ma di alcuni ne è la sintesi nuova, pur rimanendo coerente alla sua cifra stilistica verista.
Un verismo intimista – psicanalitico e storico – che caratterizza tutto il suo cinema, nel raccontarsi sempre con critica e analitica ironia: dentro lo spazio, spesso drammatico, del suo tempo.
Non proprio un film solo sul dolore questo suo ultimo – come trauma e spaesamento – come avveniva nella “Stanza del figlio”, con il desiderio di ritrovare l’intimità di un altro luogo per rigenerarsi (viaggio in macchina verso Ancona); ma opera che mantiene il suo cordone ombelicale con Roma, nel ritrovamento di un nuovo significato simbolico.
Il ruolo materno di Ada (Giulia Lazzerini ex-attrice di teatro) la madre nel film, ex-insegnante nella vita – nell’elaborazione della paura della sua assenza – viene riletto attraverso la figura della sorella Margherita (Margherita Buy, regista del “film nel film”), madre a sua volta di figlia adolescente.
Nanni Moretti si sdoppia in quel suo “stare accanto al personaggio”(frase che suggerisce ai sui attori, Margherita), raddoppiandosi nella figura femminile della sorella per uscire dal piano rappresentativo della sua realtà maschile nel ritrovamento di un suo nuovo ruolo di responsabilità.
La scarna sceneggiatura in “Mia madre”, vuole forse sottolineare questo?
Moretti, sente, che il piano di rappresentazione non può più essere il suo che è altrove, metafora simbolica del ritrovamento della parola perduta dall’evaporizazione del padre, attraverso il piano inconscio della sorella.
Quando l’attore del “film nel film”(John Turturro), non si ricorda il copione, la regista Margherita (Margherita Buy), spaventata anche di perdere sua madre ammalata, si blocca e interrompe le riprese.
Il suo film riprenderà solo quando lei darà nuovo senso al suo ruolo di madre e di regista, riassumendosi la responsabilità etica di tutti i ruoli.
Se tutto il cinema morettiano – si è sempre mostrato come contemporaneo alla sua vita, nell’immanenza della sua interpretazione storica (non ficton della sua ricostruzione sociale e generazionale nel tempo); qui si raddoppia nel ruolo registico in Margherita, nella ricerca di una nuova eredità, non solo sociale, ma etica e simbolica.
Scrive Massimo Recalcati : «se il nostro tempo è il tempo dell’”evaporazione del padre” è perché è il tempo della “Legge della parola” come ciò che custodisce la possibilità degli umani di vivere insieme.»
I sintomi di questa evaporazione sono sotto gli occhi di tutti e non investono solo lo studio dello psicoanalista (genitori angosciati, figli smarriti, famiglie nel caos); essi attraversano l’intero corpo sociale: difficoltà a garantire il rispetto delle istituzioni, frana della moralità pubblica, eclissi del discorso educativo, caduta di un senso della vita condiviso, incapacità di costruire legami sociali creativi, trionfo di un godimento mortale sganciato dal desiderio.
Nanni Moretti, si rilegge come figlio di suo padre e del suo cinema, nel porsi la responsabilità di essere anche padre del suo linguaggio maturo, dentro il nuovo tempo, suo contemporaneo.
Così, allontanandosi per sempre dall’atteggiamento edipico di “Sogni d’oro”, anti-edipico di “Bianca”, narcisista della “La messa è finita”, fino a “Habemus Papam”, suo precedente film, (già analizzato da Recalcati come il tempo “dell’evaporizazione del padre”): riapre una riflessione profonda, nella quale indagare e dalla quale ripartire.
Roma, 1 maggio, 2015
Lo spazio Moderno del Nuovo Cinema Sacher e il ritrovamento della parola
Primo tempo poetico: dall’urlo al canto
Il 16 aprile, vado al cinema di Moretti, per assistere alla proiezione del suo ultimo film “Mia madre”, al Nuovo Cinema Sacher di Roma:
Edificio Moderno, opera di Ettore Rossi, realizzata tra il 1936 e il 1938, come “Dopolavoro dei dipendenti dei Monopoli di Stato”, trasformato in Cinema Teatro dopo la seconda guerra mondiale e, solo successivamente, in Cinema Teatro Arena Nuovo.
In questo Cinema Teatro Nuovo, Pier Paolo Pasolini vide per la prima volta, Roma città aperta di Rossellini e scrisse una poesia, che fa parte del poemetto La ricchezza (1955-59) da La religione del mio tempo.
Siamo ancora all’inizio del film – in un piano che già scorre fisso – e già dalle prime scene, riecheggiano gli urli dei manifestanti in lotta; dentro un set cinematografico di un cinema che è memoria del suo cinema, ricollegandosi alla lingua colta dei padri cineasti e dei poeti.
Così si sovrappongono i piani invisibili della cultura e della parola e mi tornano in mente le immagini della Rabbia di Pasolini e il suo Canto di morte per Marilyn.
E oltre ogni stupida e sterile morale giudicatrice – rileggo in quel Canto – un gesto di amore per un’estetica perduta: che riscatta la bellezza nel talento, nella sua purezza assoluta.
Così Moretti, lascia la direzione alla sorella e nel suo “cinema del doppio”, rileggendo tutte le donne; riscattandole, finalmente, come soggetti ai quali affidare il compito della responsabilità etica e sociale.
E trasformato il grido in canto: rileggo Margherita nell’immanenza del suo lessico materno – la sua grande bellezza autentica – perché religione estetica del mio tempo.
Scrive Recalcati: «Lo dicevano Adorno e Horkheimer quando in Dialettica dell’Illuminismo assimilavano la donna all’ebreo: figure che non si possono ordinare secondo la legge fallica di una uniformazione rigida perché sono altre da se stesse, radicalmente, davvero eteros.»
Roma, 10 Maggio, 2015