Roma, 11 luglio 2018
Mi ritrovo a ripensare dopo la visione di “Il Cratere”, il film degli esordienti Silvia Luzi e Luca Gambino, proiettato ieri sera all’Arena estiva del Nuovo Cinema Sacher di Roma per la rassegna “Bimbi belli” curata da Nanni Moretti, alle coincidenze, alle analogie e alle similitudini che rivedo commossa, in vari temi artisticamente affrontati in alcuni miei lavori giovanili che riguardano: il vuoto, il non-luogo e le loro drammatiche ferite e alla speranza simbolica, spesso visionaria, che può trasformarli in altra forma artistica.
Questo titolo, spiega la regista, rispondendo a una domanda di uno spettatore rimasto ad assistere al dibattito post-proiezione che caratterizza da sempre questo premio cinematografico, non si riferisce al Vesuvio come sito dove ambientare la storia. Il film, un documentario sulla vita vera di una famiglia napoletana, propietaria di una bancarella di un luna park racconta, vedi link: http://trovacinema.repubblica.it/film/ilcratere/492554/
Il non-luogo come un social network che ci illude di fornirci dei modelli per il facile successo, è lo sperduto deserto della musica melodica napoletana, che contiene i resti simbolici di una tradizione popolare musicale, sepolta da secoli e metaforicamente conservata sotto gli invisibili zampilli di un vulcano ora spento.
I personaggi si raccontano con le loro fragilità emotive e con la loro drammatica speranza di potere cambiare il proprio destino, dentro un mondo familiare che non può evolversi fuori perché vive un tempo involuto dentro analfabetismi linguistici e modelli non codificati di riferimento.
Compito antropologico ed etico dei registi, per me perfettamente riuscito, è quello di ridarci un ritratto poetico senza retorica. Una testimonianza viva nata da sentimenti tipici di un popolo che esprime da sempre, attraverso il teatro e il canto, la sua storia e le sue radici.
Lo spazio della città che mai appare, è sempre negato. Spesso un filtro separa i personaggi dalla realtà sociale della vita vera, come nella scena in automobile che trasporta Sharon la figlia e il suo padre guidatore. Una scena senza intorno che non guarda fuori: dal vetro sporco sopra il cruscotto, non si intravede niente.
La cecità è verso il mondo senza più forma, senza più identità, senza più un sistema di codificazione culturale, dentro il caos di questo tempo estraneo alla cultura elitaria che non ha più la sua funzione didattica e divulgativa.
In queste ghettizzazioni disumane, i modelli di riferimento restano quelli televisivi, che non danno possibilità di accrescere veramente il talento, spesso malamente sfruttato ed utilizzato in forme locali di riferimento.
Mentre altro sguardo è quello della macchina da presa che già dai primi straordinari piani sfocati sui volti dei protagonisti, artisticamente si muove scavando la vita vera, quella interiore e muta dei personaggi come unica possibilità aldilà di ogni linguaggio parlato.
Dentro lo spazio familiare fatto di casalinghi gesti e di strumenti mass-mediatici (usati dal padre protagonista aspirante paroliere ed impresario della figlia), che spiano con “sistemi da grande fratello” senza codificarli, sentimenti ed aspirazioni; i registi come archeologi scavano, trovando attraverso la loro cifra stilistica e critica, una soluzione salvifica e didattica a questa forma artistica spontanea che tanto ancora può dire se non disumanizzata da attuali pregiudizi populistici.
Così la trama visiva ricuce non la storia vera, ma il suo sogno, trasformando l’investimento del padre riposto nel talento della figlia cantante, in cura affettiva inconsapevole del suo ruolo quasi materno.
La forza lirica delle immagini, parla al nostro cuore con la sua lingua che non è fatta di parole, ma di profondi contenuti che ci danno subito altre risposte etiche.
Per trovare i soldi per produrre una canzone, i genitori artisti, dell’adolescente aspirante cantante Sharon, cercano di aumentare l’entrate del loro lavoro ambulante. Il padre ricostruisce con pezzi riciclati, altri pupazzi da esporre nei ripiani della bancarella. Mentre appare il suono automatizzato della spazzola che ripulisce il peluche che è musica nelle mani della madre, noi siamo già entrati a far parte di un vuoto, riempito da altro senso e da altra forma.
Questi gesti, introducono con grande impatto emotivo, nuove consapevolezze del ruolo genitoriale, metafora anche del ruolo che dovrebbe avere la cura artistica.
Gesti fondamentali al disvelamento della forma del dolore.
Il mondo fuori non ha forma, ma il cratere ancora brucia, il suo fuoco può ancora essere sacro, come sacro è quello dell’arte?
Il dialogo tra madre e figlia necessario, come quello tra i registi e la loro responsabilità materna verso l’opera, non può che spegnersi momentaneamente allo sguardo del padre artista che deve abbandonare il suo ruolo. Alla sparizione di Sharon e alla sua apertura verso il mondo, si sovrappone un grande schermo che li accoglie, li comprende e li trasforma.
Dopo la domanda di Nanni Moretti, anche conduttore del dibattito, che chiede ai registi di questa opera cinematografica ( mentre penso, non del tutto verista, o meglio, veristicamente informale), se non rischiano i personaggi reali di rimanere appiccicati (e aggiungo sempre pensando, forse come i loro pelusches con gli occhi sgranati e immobili, appesi a un filo per i panni stesi), al loro ruolo originario senza possibilità di trasformazione o di riscatto?
Mi riguardo lo schermo bianco vuoto di immagini, sopra il suono di queste parole e ritorno visivamente, per contrapposizione formale fatta di analogica manovra di pragmatismo visionario, al “Cretto nero” di Burri esposto al museo di Capodimonte di Napoli.
Poi vado a casa, rileggo il libro dalla straordinaria copertina tattile di Massimo Recalcati sul Cretto di Gibellina, presentato recentenente al museo Maxxi di Roma, evidenziando a matita questa frase: “L’arte è all’altezza del suo compito quando, come scriveva Beckett, ci ricorda che se è impossibile continuare è anche impossibile non continuare. È in questa forzatura paradossale che l’arte trova il suo passaggio stretto: se è impossibile dimenticare l’urto del trauma, il suo compito non è semplicemente quello di ripetere il trauma, ma di elevare il suo urto alla dignità redentrice della poesia.”
Insomma, questi “bimbi belli” del “Il Cratere”, sono dei “bimbi ribelli”, come lo sono sempre i veri artisti rispetto al loro tempo. Ridipingono il cinema dando forma nuova all’ urlo dell’arte che a metà del film, cambierà anche il volto della protagonista e forse anche delle mie ritrovate poetiche. (mgf)