LA TESTA DI FESTA
Dal mio diario di bordo veneziano, 1 Giugno, 2013 ~~~
Vado all’apertura della 55.ma Biennale di arte contemporanea di Venezia e si riapre al tempo, al suo mistero, un nuovo spazio: il Padiglione della Santa Sede per la prima volta presente alla mostra veneziana.
E si riapre alla sua storia, nel tentativo di ricostruire il dialogo interrotto tra arte e fede dopo il divorzio non consensuale del secolo scorso, come annuncerà il Card. Ravasi commissario e Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, inaugurando con la parola “In principio” il luogo dell’istante pensante nel suo svolgersi tematico e cronologico di alcuni importanti capitoli della Genesi: Creazione, De-Creazione e Ricreazione.
Gli artisti selezionati dal curatore Prof. Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani, sono stati invitati a riflettere e reinterpretare parole in immagini senza voce come metafore di un possibile reincontrarsi tra Dio e l’uomo contemporaneo.
Nello spazio visivo che spera ancora la distanza contemplativa di una lunga osservazione dell’opera, come avviene nella Sistina con Michelangelo, l’opera del genio si compie, ma la sua osservazione è infinita e aperta ad innumerevoli interpretazioni.
Così guardando “La creazione di Adamo” in quel piccolo spazio vuoto, punto di non contatto che separa gli indici, quello divino da quello umano, il nostro sguardo s’interroga e si riempie di significato; significato reso dalla parola immaginata Bereshit: nel suo essere istante primo dall’assoluto nulla.
Da questa distanza di tempo e di spazio che separa anche l’artista dalla sua aura, in epoca di riproducibilità tecnica, l’arte moderna risentirà del processo produttivo, vivendo la crisi del suo linguaggio che verrà privato della sua unicità di manufatto.
Scriverà Benjamin: «L’opera d’arte è stata sempre riproducibile. Ciò che gli uomini avevano fatto ha sempre potuto essere rifatto dagli uomini. Simili riproduzioni venivano realizzate dagli allievi per esercitarsi nell’arte, dai maestri per la diffusione delle opere […] Rispetto a ciò, la riproduzione tecnica dell’opera d’arte è qualcosa di nuovo, che si afferma nella storia a intermittenza […] Con la litografia […] attraverso la litografia, la grafica divenne capace di accompagnare in forma illustrativa la dimensione quotidiana […] già pochi decenni dopo l’invenzione della litografia, venne superata tramite la fotografia. Con la fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, per la prima volta la mano fu dispensata delle più importanti incombenze artistiche, che ormai spettano esclusivamente all’occhio che guarda dentro l’obiettivo.»
Viene a inserirsi così come anello di congiunzione e a stabilire l’intervallo di tempo trascorso dentro un lungo silenzio che la separa dal suo valore cultuale e spirituale, l’opera fuori concorso, in forma di “trilogia” di Tano Festa.
Tre ridipinti su riproduzioni fotografiche di frammenti, particolari iconografici che interpretano la grande opera artistica di Michelangelo alla Sistina. Le differenti tecniche usate dall’artista romano, siamo negli anni settanta, raccontano un rinnovato passaggio dall’occhio alla mano, “l’occhio coglie più rapidamente di quanto la mano disegni”.
Li chiamo ridipinti, come a ricordare l’antico legame tra l’artista contemporaneo e il suo il grande maestro rinascimentale; in un ricongiungersi con l’antico dove l’opera trova memoria di sé e del suo rapporto con la creazione e con il suo invisibile Creatore.
Disposte una accanto all’altra le opere di Festa, entrando dall’ingresso del Padiglione della Santa Sede la prima con la figura singola di Adamo, la seconda con la figura del serpente nel Peccato Originale e la terza con il volto, il profilo di Adamo, rivolto verso il titolo “ In principio”, introducono i visitatori all’ingresso dell’esposizione contemporanea degli artisti in concorso.
L’artista romano aveva già partecipato alla XXXIII Biennale di Venezia nel 1964, con due opere dedicate al fratello scomparso intitolate, “La creazione dell’uomo”(in bianco e nero) e “La creazione dell’uomo”(a colori) che cambieranno l’atteggiamento dell’artista verso una rielaborazione più concettuale sull’opera michelangiolesca, come dichiarerà egli stesso in un intervista: «Ho fatto una serie di dipinti su Michelangelo non più oggetti.»
Quindi, come sostiene Elisa Francesconi nel suo saggio “Tano Festa e Michelangelo: un episodio di fortuna visiva a Roma negli anni settanta”, la trasformazione di Festa avviene a partire dal 1963, grazie all’influenza della lettura di “Arte e percezione visiva” di Rudolf Arnheim e alla sintonia con la straordinaria “Mostra critica sulle opere michelangiolesche”curata da Bruno Zevi e Paolo Portoghesi proposta per il Quarto Centenario della morte di Michelangelo nel 1964 a Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Dalla comparazione delle due opere esposte quarantanove anni prima alla XXXII Biennale di Venezia con quelle visibilli ora nel Padiglione della Santa Sede (la trilogia degli anni sessanta), emergono differenze.
Differenze che assumono diversi significati spaziali e temporali.
Scrive la Francesconi su le due versioni “Della Creazione dell’uomo”del 1964: «Festa operò, in entrambe, una decisiva innovazione rispetto all’originale di Michelangelo. All’originaria, possente cornice architettonica dell’affresco della Sistina sostituì un’architettura lignea che divise la superficie in quattro riquadri; e all’interno di questa intelaiatura incollò, frammentata, la grande riproduzione fotografica. L’immagine risulta così divisa in quattro sezioni che negano l’integrità del corpo di Adamo e distruggono l’unità narrativa dell’intera scena. Tra la mano di Adamo e quella del Creatore è posta una pausa cromatica e “percettiva” con l’inserimento del pannello con le nuvole grigie nella versione in bianco e nero e di un pannello nero nella versione a colori.»
Nella trilogia di Festa esposta nel nuovo Padiglione della Santa Sede invece, la mano divina non compare, tutto è ancora prima dell’idea? Prima del nostro risveglio? L’indice invisibile forse, viene rielaborato nella nostra memoria come uno spazio intimo a ricordarci la sacralità della parola con il suo senso.
Così le tre opere che appaiono separate nella loro unicità tematica e nella loro collocazione non apparente, sembrano assurgere a valore di tavole, pagine illustrative concettualità della parola immaginata, indici esse stesse: ad indicarci, anticipando, i temi della Genesi affidati ai tre artisti in concorso.
Se la creazione è perfetta perché ha un inizio e una fine e solo Dio conosce il vero principio che non ha mai fine perché infinito è il suo mistero, anche la testa di Adamo di Festa rivolta verso il verbo, diventa frontespizio della parola ebraica resh, in ebraico “testa” da cui Be-reschit (in testa).
E con “in testa” la parola, ritorno e ritrovo il senso profondo del fare artistico e del suo valore etico, nel suo svolgersi verso l’umanità, tramite il ricreato amore divino. Con il mio limite umano e imperfetto posso risentire la tattilità non tattile come un suono, come il risuonare della campana che riporta al suo logos sacro tutte le creature in un unico cantico che mi riavvicina all’altro e mi riabita.