Abitare un lessico: la mia atrio/fia contemporanea_

Appunti da un tempo di studi universitari: dal teatro alla città.

G.F., padre melomane, adorava la Horne e un giorno con lui la sentii cantare da un palco della Fenice.

Erano gli anni veneziani felici, quelli della mia nuova vita studentesca.

Tutto era elegante, serio, onesto, come era sempre stato a casa mia. I nuovi affetti: fidanzato, amici, nuovi maestri, mi tenevano in grande considerazione. Tutto mi meravigliava, forse, per quell’ingenuità umbra pinturicchiesca che ancora avevo dipinta negli occhi.

Abitavo un mondo nuovo, lontano dal provinciale pettegolezzo che svilisce ogni entusiasmo intellettuale, respiravo la stessa cultura casalinga – quel profumo di legno di noce, di carta un po’ ammuffita, di lana persiana, di plumcake – che sentivo entrando nello studio di mio papà fin da bambina.

Era l’odore del tempo nel quale ero immersa: un tempo straordinario che riscopriva le sue radici umaniste.

A.M.A., mia mamma, invece non veniva spesso a trovarmi, ma restava come in quella foto che ho recentemente ricevuto dalla figlia di una sua cugina – studiosa e dolce – seduta alla sua scrivania a scrivere. Lei che insieme alla nonna, molto giovane, era andata ad insegnare latino e italiano in qualche scuola perugina.

Era nello spazio delle parole ritrovate in un vecchio Zanichelli, dentro le aule – aldilà della laguna di un linguaggio nuovo – che iniziavo a sperimentare la vita adulta fatta di pietre antiche e di nuovi materiali, di storia e di sogni.

San Marco era una piazza e Santo Stefano un campo.

(Maria Giulia Fabbri)